Una linea a destra e un’altra, storta pure quella, a sinistra.
Due linee storte e incrociate.
Mio nonno, analfabeta capoccione, firmava così.
Con una bella X tremolante.

A 10 anni io invece sapevo scrivere. La mia firma la sapevo fare. I miei libri li sapevo leggere. Ma lui no, e non gliene importava un fico secco. Semmai i fichi se li mangiava a colazione fra due fette di pane. Ero più io ad insistere.

E lo feci in un pomeriggio di quelle noiose domeniche estive, dove non sai mai cosa fare. Dopo una grande abbuffata a base di ragù, incazzature di mia madre e perentori no di mio padre. Lo feci così tanto per fare qualcosa. Per non sentire il cuore bussare alla porta del mio dolore. Per intrattenere quel tempo della mia vita che mi sembrava interminabile.

Andai nel corridoio e presi dal mobile nero coi piedi di rettile, che papà si ostinava a definire Bellissimo, un quaderno a righe. Non strappai nessun foglio. Glielo misi davanti e dissi: Nonno, ora ti insegno a scrivere il tuo nome.

Non ricordo la sua faccia. Non ho idea di cosa stesse pensando. Non ricordo nemmeno cosa mi disse. Il mio ricordo inizia con noi curvi sulla scrivania a fare la erre e la pi. Sono le sue iniziali. E giù a scrivere di brutto. Come la sua calligrafia eccitata ed energica di quel momento.

Ricordo con precisione quella pi con le rotondità giuste. E la erre che sembrava un’autostrada.
Hai fatto la esse, scrivi la erre per favore.
Eravamo io e lui. Nessuno ad interromperci. Come se avessero capito l’importanza di quella faccenda. Facevo la maestrina. Ero entrata nel personaggio e lo sposavo benissimo.
Si fa così. No, hai sbagliato. Ripetiamo. Scrivilo di nuovo. Nonno! Ok. Penso vada bene.

Lui, che di solito era irrequieto, mi stava a sentire. Non avevo davanti il nonno che accontenta la nipotina, mi trovavo piuttosto a scuola con uno scolaro che voleva imparare. Quel pomeriggio riempimmo tante pagine di quaderno. Nessuna croce. Nessuna X. Solamente il suo nome e il suo cognome: fu il più bel regalo ricevuto da mio nonno.