A volte scrivo tardi una notizia, il che mal si adegua al lavoro che avevo sognato da bambina; ma parlarne dopo, per me, significa metabolizzarla, lentamente. Lo faccio di proposito. Per trovare le parole giuste, per dare degna attenzione al fatto.

Questo è il mio periodo di “riflessioni profonde”, dove cerco di arrivare al fulcro di ciò che penso o che vivo. Svelarne le emozioni e appuntarle, ovviamente, con una scrittura senza censura, personale e rivelatoria, sarebbeil mio obiettivo.

In questo caso la mia riflessione profonda e di conseguenza il mio ritardo riguarda una ricorrenza, non di quelle piacevoli come un compleanno o una festa in genere; una ricorrenza diversa, che vorresti non fosse accaduta, ma non è così; e quando arriva, aspetti; aspetti prima di scrivere; aspetti le parole giuste, se mai ne sono capace; di stropicciare gli occhi; di piangere, perché no; di sapere, esattamente, che dentro di me non sarei diventata una brava giornalista e che Giancarlo Siani morto il 23 settembre del 1985 a 26 anni era un giovane cronista abusivo diventato, suo malgrado, simbolo di legalità, dell’anticamorra, della denuncia, del servizio vero e concreto fatto dalla stampa a tutti noi. E anche, purtroppo, degli abusivi in redazione. Gli invisibili.

Da questo mondo, oggigiorno, fatto di comunicati, taglia e incolla, omissioni, negligenze e strizzatine d’occhi me ne sono scappata. Non se n’è accorto nessuno, non vi preoccupate, la sostituzione è immediata. Ma suppongo che nel 1985 le cose fossero diverse. Che i reporter trovassero le notizie scendendo tra la gente, camminando, facendo domande; entrando in un bar per ascoltare discorsi, fare amicizia, farsi nemici. Questo capita se chi scrive non pensa come chi legge. Leggendo libri, saggi, poesie. Che con la gavetta prima o poi ci metti piede in redazione e non la vedi solo dietro ad una email.

So benissimo che il giornalismo è cambiato, che i social distorcono le notizie e gli algoritmi la storia. All’epoca ancora non era successo. E Giancarlo Siani pensava di fare il mestiere più bello del mondo con quella vivacità tipica di chi ha speranze nel futuro. Prendeva appunti, partecipava a comizi, faceva domande, trovava le notizie nella vita vera e non in quella virtuale.

Purtroppo è morto. Già già. È morto a 26 anni. Sotto casa. Sparato ripetutamente in faccia. Morto nel fiore della giovinezza. Nel pieno del suo futuro. Quando ancora credi che riuscirai a diventare un giornalista professionista. Ma Giancarlo era abusivo. Faceva un lavoro senza contratto. Oggi si chiamano freelance. E spesso una redazione non la vedi nemmeno da lontano. Lui in quella redazione del Mattino ci entrava, portava la sua macchina da scrivere, si sedeva e scriveva. Un suo articolo gli è costato caro. Nella redazione non ci sarebbe più entrato. Non si sarebbe più seduto alla prima scrivania libera. Non avrebbe più scritto. Quel dato numero di parole gli era stato dato dal destino e quel dato numero di parole lui le aveva usate tutte.

Uno dei libri più belli che abbia letto in vita mia è su Giancarlo Siani. Lo ha scritto Franceschini 20 anni fa. L’abusivo è più che mai attuale, da portare nelle scuola, da rileggere. Un intreccio di storie, aneddoti, vite vissute in una Napoli complessa e problematica in cui la vita dello scrittore, e le sue riflessioni profonde, si uniscono alla vicenda Siani. Lo consiglio per la bellezza della narrazione, la storia, lo stile e perché Giancarlo Siani sia pure nella sua tragica ricorrenza o in un libro non muoia per davvero. Né lui, né il giornalismo. Anche se ce ne ricordiamo il giorno dopo, e quello dopo ancora, e il giorno successivo. Anche quando arriviamo tardi, non lo conoscevamo prima di oggi e non sappiamo nemmeno cosa significhi essere abusivo. Ricordarlo sempre perché la camorra non sparisce, preferisce essere dimenticata.