Uomo gentile

Ho detto al mio capo che quella domenica non sarei andato a lavorare perché ho bisogno di riposare. Lui si è arrabbiato come un pazzo furioso. Ha spostato il tavolino della sua scrivania, che è sbattuto sul muro, e ha buttato a terra tutti quei fascicoli del fisco che da mesi teneva sotto il fermacarte di pietra. Il fermacarte è andato diritto sulla mia testa, facendomi sanguinare il volto con un rivolo rosso dal gusto di caffè. Avevo la tazza in mano e ne stavo apprezzando l’aroma. Nemmeno il tempo di deglutire che la mia faccia si è gonfiata.

Non sono arrabbiato né provo disprezzo per Giulio. Ha 39 anni ed è a capo di un negozio di scarpe grande quanto un centro commerciale di provincia. Non è figlio di papà. La sua famiglia è povera. Ma ci sa fare coi conti. Io no, la mia famiglia ha sempre avuto una libreria grande quanto una biblioteca, soldi a palate e tutti sorridevano sempre. Ma non so fare i conti e nemmeno mi piace farlo. Preferisco essere un commesso. Niente lamentele, niente carriera, niente faide arriviste.

Ma quanto sangue sto perdendo? Non mi sembra possibile avere tutta questa roba nel mio corpo. Forse dovrei andare in bagno e pulirmi. Giulio non mi fa passare e mi sposta sulla sedia. Lui sì che è arrabbiato. Non mi sembra di avergli mancato di rispetto. Non ho detto nulla di male infondo. Solo che voglio stare a casa domenica.

La domenica è sacra. Lui non vuole che si stia a casa. È arrabbiato perché non c’è nessuno che mi sostituisca. Tutti vogliono stare con la propria famiglia solo io ero sempre disponibile. E ora cosa fa? Dio santo, Giulio! Scendi dal balcone che puoi cadere. Lo afferro per i pantaloni, ma sono troppo stretti e di quella stoffa lucida che ti scivola. Perché diavolo non vesti come me? Gli chiedo. Lui si spinge e cade. Lo afferro da una gamba, ma tira, urla, si dimena. Adesso ci vedono tutti. C’è anche l’ambulanza, forse dopo che è finita questa storia, mi medicheranno il volto, penso. E il sangue mi scorre dappertutto. Mi copre gli occhi, entra nella bocca, scivola sul collo e mi macchia la camicia. Cavolo! È bianca! Penso che non la leverò più quella macchia.

Ma stai un po’ fermo, penso.

Sono arrivati i poliziotti. Li vedo con la coda dell’occhio. Aiutatemi non riesco più a tenerlo, è pesante. Mettono giù le pistole e lo afferrano. Sono forti, loro, ce la fanno. Ma Giulio ha perso conoscenza e non risponde. Lo schiaffeggio, voglio che rinvenga. Maledetto sangue che non finisce più di uscire, mi stai macchiando la camicia bianca, bastardo.

Bastardo! Urlo e lo schiaffo diventa pesante forte e insistente. Uno due tre schiaffi. Non riesco a controllarmi. Lo prendo a calci, cazzotti. Sputo sangue e caffè. Anche la sua camicia è sporca: finalmente, siamo pari.

Un poliziotto mi ferma. Non vedo il volto, ho troppo sangue sugli occhi. Mi spinge sulla sedia e mi guarda meravigliato.

Mi ha sporcato la camicia, gli urlo in faccia.

L’uomo mi afferra e mi porta via. Lontano da Giulio.

Entro nell’ambulanza un medico mi disinfetta il volto e mi chiede come sto. Non so rispondere perché io non mi arrabbio mai, così gli sorrido: mi ha sporcato la camicia, se ne andrà via dottore?

Foto di Free-Photos da Pixabay