Paolo e Stefano di Chico XavierÈ facile giudicare chi è colpevole. Basta additarlo per uno sbaglio, il peggiore degli sbagli, e sarà marchiato a vita. Quando ho letto la storia di Paolo e Stefano raccontata da Emmanuel a Chico Xavier, Paolo lo detestavo. Per via di quelle sue affermazioni sulle donne. Il perdono di Cristo mi era estraneo. Quell’amore di cui tanti dottori della legge divina si riempiono le bocche era qualcosa di più lontano da me che ci potesse essere. Eppure mi vantavo di leggere poesie d’amore, versi sublimi, libri! E che libri. Ma a fine giornata bastava lo sbaglio di qualcuno per appuntargli al petto la famosa A di Ester Prinn, protagonista del libro La lettera Scarlatta. Sapete chi ero diventata? Ero diventata un giudice. Dall’alto della mia saccenza condannavo o assolvevo. Non c’era posto per gli errori. Per gli sbagli. Nella mia vita. E nemmeno per chi sbagliava. Contava soltanto il mio pensiero. Oh! quanto è beffardo l’ego umano. Mi crogiolavo del mio sapere così misero rispetto alla grandezza di un granello di sabbia, cercando sempre di essere perfetta, di fare meglio degli altri le cose, di essere cortese, educata e irreprensibile, mi resi conto di avere non una! ma centinaia di maschere. Una maschera per piacere. Una per ammaliare. Un’altra per sedurre. E una per soggiogare. Credete che sono stata dura con me? Niente affatto. Perché in quel momento stavo facendo la mia esperienza di giudice. E come capita quando si vive una vita di finzioni, dove finisci davvero col credere di essere quello che sei diventato, l’anima ti bussa al cuore e ti ricorda chi sei. Una lettera scarlatta grande quanto l’universo. Grande più di te. Più del tuo nemico. Così grande che ti soffoca in petto. Ti manca il respiro. L’aria, dov’è l’aria! La cerchi dapertutto, ma non la trovi. La tua aria non c’è, è sparita. Ti è stata presa. Chi lo avrà fatto. Tu. Lui. Lei! Sì proprio lei. Lei così gelosa. Invidiosa. Puerile donna. Vedevo nemici ovunque. Questo era troppo ricco. L’altro antipatico. Troppo grasso. Magro. Brutto. Bello. Affascinante. Troppo, troppo di tutto. Di visi stanchi. Afflitti. Di sogni andati in fumo. Cosa mi stava capitando. Chi ero? Chi ero diventata? Fu in quell’istante che incontrai il carnefice. Arrivò lo sbaglio. Gli andai incontro già distrutta. Non fece fatica a raccogliermi da dove mi trovavo. Mi sedusse allo sbaglio. E sbagliai! D’improvviso cambiò la scena. Non ero più seduta al centro tra i giudici. Ero al banco degli imputati con la mia lettera A della colpa. Colpevole di non essermi amata davvero. Seduta, tremante. Ascoltai la mia condanna senza parlare. Imparai a inghiottire parole. A sistemarle tutte sullo stomaco. E presi a odiarmi. Provavo nei miei confronti grande risentimento. Ma come avevo potuto sbagliare. Proprio io! Come avevo fatto a non capire. Perché era successo tutto questo? Una condanna che espiavo ogni giorno, nella solitudine del mio cuore, portando colpe che non mi appartenevano, addossandomi dolori a lungo repressi. Avevo trovato la mia prigione. Ne possedevo le chiavi. Ma non l’aprivo. Conobbi il tormento, l’angoscia e non so quanti fantasmi venivano a trovarmi quando calava la sera. In uno stato d’animo pervaso dal senso di frustazione incontrai Paolo di Tarso, o quanto meno uno che diceva di essere Paolo di Tarso, un carnefice della peggior specie, prima però era stato un giudice. Inflessibile, quest’uomo ha perseguitato migliaia di persone che la pensavano diversamente. Ha fatto uccidere uomini, donne e bambini. Odiava i Romani, ma poi chiedeva il loro aiuto nel commettere i suoi omicidi. Omicidi dettati dall’ego. Dal voler avere ragione a tutti i costi. Diceva di agire in nome della legge e per la stessa legge uccideva. Poi ebbe una visione, vera? e chi può dimostrarlo, vide e sentì il Cristo. Questi lo illuminò. O meglio illuminò la sua ombra, e lui la vide… la sua colpa… per intero. Si vide impugnare coltelli. Affilare lame. E conficcarle dritte nella carne umana. Con violenza inaudita. Le sue mani gridavano vendetta. Che specie di rabbia poteva averlo soggiogato? Paolo era uno che la colpa la stava vivendo appieno. E senza remore perseguitava innocenti, scendeva a patti col diavolo. Fu mentre dava sfogo a tutti i suoi impulsi, ormai liberati, che si guardò allo specchio. Si vide menzognere. Infame. Arrogante. Saccente. Si vide per la prima volta e ciò che vide lo sconvolse. Come non poteva non sconvolgerlo. Chiunque avrebbe tribolato. E fu allora che anche lui ebbe la sua bella Lettera scarlatta sul petto, che portò fino alla fine della sua vita. Nel racconto di Chico, Paolo appare un uomo fragile, uno che ha bisogno di conferme. Uno che vuole il nero sul bianco perché aveva paura del grigio. E scoprendosi lui stesso grigio è caduto nella vergogna. Paolo e Stefano è un libro che mi ha aperto il cuore a quella lettera scarlatta che ognuno di noi porta di nascosto sul petto. Mi ha fatto capire quanto fosse stato importante il mio sbaglio. Dovevo sbagliare perché dovevo capire cosa si prova a stare dall’altra parte e cercare perdono, continuamente, ripetutamente, fosse solo per avere un mezzo sorriso. Paolo e Stefano mi ha aiutato a perdonare e perdonarmi. E alla fine ho incominciato a pensare che siamo tutti nati con una bella lettera scarlatta sul petto, proprio come Ester Prinn e Paolo di Tarso, e solo con la compassione, con-patire, portare insieme il dolore, il tuo esattamente come il mio, diventiamo liberi. E la libertà dell’anima sprigiona sempre parole che guariscono.