C’era qualcosa in quella stanza che creava problemi ad Adele. Era per il fatto che fosse vuota e buia. La madre ci entrava, questo lo sapeva perché ogni tanto la stanza era piena di luce, ma lei no, non aveva mai messo piede lì dentro.

Sono sicura che c’è un dirupo. Se entro cado giù da una scarpata”, diceva alle sue amichette di classe. Le fanciulle la guardavano stupita, e temevano per la sorte di quell’amica spaventata. Adele non sapeva con esattezza perché quella stanza le creasse tutti quei problemi. Forse era per il fatto che fosse vuota. Vero o falso che sia, non ci è dato sapere cosa muovesse la paura di Adele.

Sta di fatto che in quella stanza lei non c’era mai entrata. La stanza vuota faceva parte di un lato della sua casa che non voleva affatto conoscere. Un giorno, di ritorno da scuola, trovò sul tavolo della cucina un biglietto gigante. Riconobbe subito quella zeta bizzarra. La madre le aveva lasciato un messaggio: “Apri la finestra e fai arieggiare la stanza vuota; è da troppo tempo che nessuno ci entra”.

La stanza vuota! Il suo peggior incubo si stava realizzando.
Cercò tra la fantasia la scusa più efficace che la tenesse lontano da lì.
“Posso dirle di aver incontrato un drago in cucina che dormiva nel forno. Oppure che la signora del piano di sopra ha trovato delle lucertole chiuse nell’armadio. Che erano così tante che quando sono venuti i vigili del fuoco hanno fatto un buco nel muro per salvare la signora. Però sono stati molto carini hanno lasciato tutto pulito”.

Dopo una prima oretta piena di verve le idee lasciarono il posto all’unica soluzione possibile: entrare nella stanza vuota e aprire le finestre.
“Tanto lo so che se entro cado giù nel vuoto. Quella stanza è pericolosa”.
Piangeva la piccola Adele, le lacrime rigavano il suo volto pallido lambendo i petali delle labbra. Amare, com’erano amare quelle gocce!

Una vocina le diceva che poteva farcela, che in quella stanza non c’era nulla, ma proprio nulla di cui aver paura. Decise di entrare. Poggiò la mano sulla maniglia e un rumore stridulo di cerniera arrugginita le fece eco per un istante. Il cuore di Adele discese nel profondo più basso che poteva conoscere. Le lacrime ormai erano dotate di vita propria, e non avevano nessuna intenzione di smetterla di uscire. I suoi occhi, più aperti che mai, cercavano nel buio uno spiraglio di luce. Luce che non poteva entrare perché la stanza era al buio.

Sono sicura che cado giù” ripeteva fra sé.
Mise un piede dentro, ma il buio subito lo ricoprì.
“Mi ha rubato il piede!” gridò impaurita Adele.
Il tempo di dirlo che anche l’altro piede era stato risucchiato.
Con un corpo, completamente fuori controllo, Adele guardava allibita la sua vita perdersi nel vuoto.

La stanza mi sta lentamente mangiando. È tutta colpa di mia madre, se ne pentirà”.
La fune della tapparella era vicino alla sua mano destra. La prese. La trattenne.
“Non ce la farò mai. Non ce la farò mai” continuava a ripetersi.
Era tesa. La mano tremava. Il sudore le tagliava il palmo.
“Non ce la farò mai. Non ce la farò mai”.
Tira. Tira. Le diceva una vocina nella testa.
“Non ce la farò mai. Non ce la farò mai”.
Lascia. Lascia stare. Le diceva la vocina.
“Non ce la farò mai. Non ce la farò mai”, piagnucolava Adele.
E la luce entrò.
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!”
Adele piangeva di gioia. Voltandosi vide quanto fosse lontana la porta dalla finestra.
“Non c’è nessun precipizio”, affermò sorridendo.
Quella stanza non era così spaventosa come aveva creduto fin’ora. Le piaceva. Tutti quei colori le piacevano. Il pavimento le piaceva. L’aria le piaceva. Dalla finestra si vedeva addirittura il mare.
Così, da quel momento, la stanza vuota divenne la stanza di Adele; e Adele ci andava ogni volta che voleva scoprire qualcosa di sé.