imageLa vita è così: un-semplice-fatidico-tocco-di-luce. Una tenue stella che appare e scompare nel giro di un batter di ciglia. Un breve lasso di tempo per immortalare: “Chi sei. Cosa hai fatto. Che hai provato”. Basta un po’ di luce, ma dico sinceramente un po’ di luce, e quell’istante diventa un quadro. Sarà questo che voleva Jan Vermeer quando con la sua pennellata decisa imbiancava il collo di una giovane donna o il viso di cameriere nell’atto di riordinare casa.

Bloccare il tempo e illuminare, nella quotidianità di un’esistenza casalinga, un momento di vita. Ciò che non vediamo, perché a meravigliarci come i bambini ci abbiamo rinunciato da tempo. Però la meraviglia esiste, è racchiusa negli occhi dell’autore. E sta di fatto che ‘quella luce’ posata su ‘quella mano’ e immortalata su ‘quel quadro’ ha dato vita a fotogrammi ricchi d’emozioni. Un’istantanea eterna.

“Dimmi, dimmelo!”
Sembra chiedere l’osservatore al dipinto.
“Dimmi che sei vivo. Che in quest’istante mi appartieni.”

È quello che vuole anche l’amante di Vermeer: conquistare il pensiero, il cuore di chi lo dipinge, e possederlo. Niente giochi. Niente scherzi. Solo l’osservatore, lui o lei, i protagonisti, e poi, il pittore, Vermeer, piccolo genio della luce. Colui che riesce con una pennellata di bianco o oro a illuminare di sensualità una bocca, un labbro, un gesto. Come la suonatrice di liuto, la giovane donna col bicchiere di vino e lei, la ragazza col cappello rosso. Lei che ti guarda dritto negli occhi quasi a sfidare il tuo voyeurismo. Perché in quello sguardo i ruoli si confondono. Non più lui. Non più lei. Un solo superstite Veermer. La mano che trema mentre col pennello raccoglie il colore. La mano che sobbalza quando sull’occhio scopre il mistero. La mano che taglia il tempo e lo raccoglie in un’istante. Carico di meraviglia è lo spettatore. Meravigliato il pittore.

Alle Scuderie del Quirinale questo è ciò che ho visto nella mostra dedicata al secolo d’oro dell’arte olandese. Otto splendidi dipinti dell’artista della luce. E a noi non resta che “illuminarci d’immenso”.