Ricordo questa storia con estremo terrore. E credo, con tutta sincerità, che i miei capelli siano diventati bianchi in seguito a quest’episodio. Racconto il fatto ora che sono anziana, e prima che la memoria ceda il passo al silenzio. A quel tempo ero giovane. E come tutte le ragazze giovani amavo passeggiare, cantare e stare in compagnia di amici. Nel mio girovagare fra festicciole, un giorno incontrai il duca Sestino che mi invitò per una gita, al chiaro di luna, sul canal Fandango: il rio che ispirò i famosi versi “Intriso del tuo lezzo” del Catranova.
Se ancora non l’avessi detto mi trovavo in Salinturia, nei pressi della martoriata terra delle Bulaghe. E quel canale era qualcosa che di più orribile non avevo mai visto. Terribili leggende di navi incagliate e di mostri marini si narravano fossero accadute ai viandanti in attesa di salpare. Ma, come ho già detto precedentemente, io ero giovane. E come tutti i giovani ero sprovveduta. Avessi il senno di oggi, ah quante cose avrei evitato! Purtroppo la storia non cambia i suoi eventi e le persone il loro destino. Il mio era legato, inesorabilmente, a quel viaggio in barca.
Quando arrivai sulle sponde del fiume era già da qualche ora calato il sole. Mi chiesi come mai fosse stato scelto un orario così notturno per addentrarsi su quel macabro canale. La risposta non arrivò. Il mio animo era stranamente inquieto, come se dentro di me sapessi che qualche cosa di tremendo stava per succedere. E in effetti così fu. Quando misi piede sulla nave mi capitò un incidente; allora mi sembrò una fatalità; ora tremo al ricordo di ciò che preannunciava. Il barone Pistacchio nel porgermi la mano e aiutarmi a salire in barca per poco non mi decapitava con uno strano telo, che neanche a dirlo, si trovava proprio lì, all’altezza della mia gola. Accecata dalla paura non riuscii a vedere chi fra tutta quella gente mi avesse aiutato. Solo tenui sorrisi e occhiate furtive mi diedero a pensare che una trama diabolica si ordisse alle mie spalle.
Il timore che qualcosa di peggiore era in procinto di mostrarsi mi arrivò poco dopo quando dalla cambusa giunse una voce tenorile che cantava il ritornello della famosissima canzone “Je te vurria ammazzà”. Non feci in tempo a chiedere di chi fosse quell’ugola d’oro perché la voce si mostrò nelle sue sembianze fisiche nell’immediato. Un uomo sulla cinquantina, e vestito in frac, mi si avvicinò, e baciandomi la mano con lo sguardo puntato nei miei occhi, sussurrò le dolci note di “Je te vurria ammazzà”. Capirete la mia paura, l’autore di questa canzone era stato trovato ammazzato con lo spartito nel naso mentre provava il brano. Non si è mai saputo chi l’avesse ucciso e perché. Solo che nessuno, dopo di lui, ha mai più cantato quella canzone. Che ci fosse un sortilegio dietro, non sapevo. Non lo potevo sapere.
In tutta quella confusione generale cercavo di non far trapelare il mio disagio. E quando l’intera compagnia fu a bordo, partimmo. A largo le acque placide cambiarono fulminee il loro ritmo, e il fiume divenne un mostro avido di vite umane. Io vedevo sorgere dalle acque spumose corpi nudi di gente mutilata con orribili morsi. I miei compagni di avventura non ci badavano affatto. E. per farmi rilassare mi offrivano strane tartine dal colore rosso fuoco. Notai immediatamente che lo strano intruglio rosso alitava di spezie amare, e che le persone, a bordo, avevano cominciato a perdere il controllo poco dopo averne addentato qualche morso. Credetti che fosse una specie di droga, un allucinogeno, perché il signor Festino, noto latifondista della zona, ne reclamava altri mentre danzava a ritmo di quella strana musica che aleggiava nell’aria. La melodia si faceva a volte focosa e altre volte melodrammatica. Non ho mai saputo da dove provenisse. La barca era sprovvista di grammofono e se ci fosse stata un’orchestrina l’avrei vista. Sentivo che quelle canzoni non erano state messe così per caso. C’era un messaggio velato in quelle parole. Come se qualcuno, o qualcosa, volesse segnalare la sua presenza.
Avevo molta fame, ma non toccai cibo, perché il mio stomaco era altalenante, come le acque putride di quel fiume. E nulla ormai poteva togliermi dalla mente che la gita si stava trasformando in un incubo. Il duca Cruscotto, proprietario delle prime macchine a vapore, mi invitò a babordo. Mi disse che di lì si godeva di un panorama mozzafiato. Ma ciò che vidi me lo stroncò il fiato. Credo che la morte non mi colpì solo grazie al mio sangue freddo. Che paura! Una scena di tale violenza non l’avevo mai vista. Le acque del fiume in quel punto erano ancora più putride e si aprivano a vortice. Dentro, come una croce impiantata su un promontorio, c’era una capra. Era tutta nera e la bava le usciva dalla bocca. Che avesse paura era cosa certa, ma sul come fosse arrivata proprio lì, non v’era risposta. Belava dalla paura.
“Dovremmo aiutarla”, dissi al duca Cruscotto. Il suo volto era sorridente e sprezzante. Era chiaro che la scena non lo impressionava affatto e, forse, nemmeno lo stupiva.
Il duca prima non mi rispose, poi con voce rauca e morsa dalla rabbia mi fece una domanda che ancora adesso, che sto rivivendo la “Storia funesta di una gita in tempesta”, mi suona stranamente assurda.
“Tu vuo’ fa l’americane?”
“Cosa?” chiesi sempre più stupita.
“Tu vuo’ fa l’americane?” ribadì.
Presi a farfugliare. La domanda era stata fatta a bruciapelo e io l’America non l’avevo mai vista, figuriamoci se potevo conoscere un americano e sapere come si fa a fare l’americano. Blaterai parole incomprensibili. Cosa mi avevano messo nel mio bicchiere d’acqua. Da quel momento la visione che ebbi del mondo fu capovolta. Fui assalita da una musica in una lingua incomprensibile. Non respiravo quasi più. E sentivo risalirmi quel po’ di tortino che avevo assaggiato dalle mani di Lady Magnolia.
La musica era sempre più forte. Ritmo africano, almeno credo. La gente sulla nave saltellava. E a ogni saltello corrispondeva un movimento ondulatorio del fiume. Le voci si mischiavano a tamburi. Ci fu un punto in cui credo che si fossero unite. Oddio il duca Cruscotto parlava a tamburo e lady Magnolia cantava a violoncello! Gente, i cui volti mi scomparivano e mi apparivano come fossero fantasmi. Credo di aver visto, in quel turbine di dolore, una donna che si era buttata in mare. Diceva “Tu vuo’ fa l’americane?” vicino a quella capretta, che prese a scoppiare. Uno scoppio multicolore. Pieno di scintille. La nave sobbalzò, a ogni ondata, e i fuochi erano così spaventosi e vicini che credevo di essere nel mezzo di una battaglia. Mortai, fucilate, cannonate. E sopra tutti quella canzone, col suo dialetto strano. E quella frase. Quella frase che era diventata un’ossessione. Un’ossessione che ballava a ritmo di un’onda impazzita. “Tu vuo’ fa l’americane?”, la sentivo ovunque. Nelle tartine. In cambusa. In uno spruzzo d’acqua. Mi era salita in gola e voleva uscire dalle orecchie.
“Tu vuo’ fa l’americane?” la ricorderò per sempre. I volti sorridenti e poi cupi si alternavano ai miei occhi; e caddi, priva di sensi. Poi non ricordo più nulla, solo: “Tu vuo’ fa l’americane?”. Dopo tutto questo tempo ancora ricordo quelle note e quella frase “Tu vuo’ fa l’americane?”. Ma cosa significasse è per me un mistero di cui non avrò mai la risposta.
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