L’INTERVISTA

Ora che abbiamo capito quando arriva il Censore e come molto spesso ha condizionato i nostri comportamenti, possiamo procedere con un altro piccolo esperimento. Si tratta di fare e di farci fare una deliziosa intervista. Così capiremo anche gli altri come ci vedono e quali belle poesie e frasi gli abbiamo ispirato o viceversa.

Esperimento n. 02

Questa volta non lavoreremo da soli ma ci sceglieremo un partner; una persona possibilmente che non conosciamo. Questo per evitare preconcetti o altro. Osserviamola. Guardiamola. Chiediamole come si chiama, che cosa fa nella vita, se le piace il suo lavoro. Insomma le domande sono tantissime. In ogni modo rispettate sempre l’altra parte; se non vuole rispondervi, non insistete, avrà i suoi buoni motivi. Vi consiglio di arricchire le domande con piccole curiosità come: quale dolce ti piace? Perché? Insomma, divertitevi.

Ruhollah Khomeini
Da «Corriere della Sera», 26 settembre 1979

Teheran, settembre 1979
Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià. Ti insegue nelle strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazaar: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa. E l’effetto è indiscutibile, ovvio. Niente bevande alcoliche, per incominciare. Che tu sia straniero o iraniano, non esiste un ristorante che ceda alla richiesta di un bicchiere di birra o di vino; la risposta è che a infrangere il comandamento si buscano trenta frustate e del resto ogni bottiglia di alcool venne distrutta appena lui lo ordinò. Whisky, vodka e champagne per milioni di dollari. Niente musica che ecciti o intenerisca, per continuare. Alle undici di sera la città tace, deserta, e non rimane aperto neanche un caffè; ballare è proibito, visto che per ballare bisogna più o meno abbracciarsi. È proibito anche nuotare, visto che per nuotare bisogna più o meno spogliarsi. E così le piscine son vuote, sono vuote le spiagge dove le coppie devono star separate e le donne possono bagnarsi soltanto vestite dalla testa ai piedi. Se sei donna infatti è peccato mostrare il collo e i capelli perché (chi lo avrebbe mai detto?) il collo e i capelli sono gli attributi femminili da cui un uomo si sente maggiormente adescato. Per coprire quelle vergogne è doveroso portare un foulard a mo’ di soggolo monacale, però meglio il chador cioè il funereo lenzuolo che nasconde l’intero corpo. Lo adoperano tutte, e sembrano sciami di pipistrelli umiliati. Lo sai che non possono andare dal parrucchiere se è maschio? Farsi pettinare o lavare la testa da un parrucchiere maschio equivale quasi ad un coito: cinquantamila coiffeurs pour dames stanno per finire sul lastrico. «Se mi scoprono son rovinato» sussurra il mio parrucchiere che sfida la legge perché è di religione cristiana. Poi a scanso di equivoci aggiunge che lui non sente nulla a massaggiarmi la cute: «Per me è come se fossi un dottore». Anche stringersi la mano è scorretto, tra persone di sesso diverso. «Allah non vuole» esclama un giovane funzionario del governo quando faccio il gesto di salutarlo così. E ritrae la destra tutto inorridito, se la posa sul cuore come una verginella. Le libertà sessuali, inutile dirlo, sono crimini da punire col plotone di esecuzione: non passa giorno senza che la stampa dia la notizia di qualche adultera fucilata. (Gli adulteri se la cavano invece con due o trecento frustate che gli riducono la schiena a una mostruosa polpetta.) Si fucilano anche gli omosessuali, le prostitute, i lenoni. Lo ammette anche lui nell’intervista che pubblico in terza pagina. (La prima che Khomeini abbia dato in molti mesi, cioè dopo il suo ritorno in Iran, e l’unica che abbia mai concesso a una donna.) «Le cose che portano corruzione a un popolo vanno sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono i loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini; ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette.» Però un uomo può avere quattro mogli; la legge è ancora valida, come egli ci spiega. E può avere un numero indefinito di concubine provvisorie purché firmi un contratto a scadenza. Inoltre può fumare l’oppio che ha il timbro governativo.
Il suo nome è sulla bocca di tutti, ossessivamente, sia che venga pronunciato con amore sia che venga sibilato con odio: è ormai ciò che in Vietnam era il nome di Ho Ci-min, in Cina il nome di Mao Tse-tung, e nei comizi scatena un tale fanatismo che ieri il primo ministro Bazargan ha perso le staffe. «Se dico Maometto applaudite una volta, se dico Khomeini applaudite tre volte. Al posto del profeta io me ne offenderei.» Non dimentichiamo che a decine di migliaia son morti per ubbidirgli, viene il vomito a guardare il cimitero in cui li hanno sepolti, magari in fosse comuni, e in sostanza non è cambiato nulla dai giorni in cui con quel nome sulle labbra si gettavano inermi contro i carri armati per esser falciati dalle mitragliatrici. Se lui lo esigesse, rifarebbero altrettanto. Il 18 agosto, quando si autoproclamò Capo Supremo delle Forze Armate e invitò il paese a punire i curdi ribelli (questi poveri curdi traditi da tutti, massacrati da tutti), una valanga di militari a riposo raggiunse con mezzi improvvisati i centri di Kermanshah, Sanandaj, Mahabad: per combattere. «Indietro» urlavano gli ufficiali dell’esercito regolare. «Indietro, imbecilli, chi vi ha mandato, tornate a casa, provocate disordine!» E loro fermi, a ripetere che avevan risposto a un ordine di Khomeini, non c’è generale che possa annullare un ordine di Khomeini. «A me sembra fanatismo del genere più pericoloso, Imam. E cioè quello fascista. Infatti non sono pochi coloro che oggi vedono in Iran una minaccia fascista.» E lui: «No, il fanatismo non c’entra, il fascismo non c’entra. Gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, cioè per applicare i comandamenti dell’Islam».
Chi lo contesta o lo critica o lo maledice viene considerato un nemico della Rivoluzione, un traditore dell’Islam, una spia degli americani, un provocatore sionista, un agente della Savak, ed ha solo due scelte: arrendersi o fuggire all’estero. Al mattino centinaia di iraniani gremiscono l’aeroporto di Teheran per mendicare un posto sui voli strapieni, non importa dove siano diretti; altri se ne vanno via terra passando dalla Turchia, oppure via mare passando dal Golfo Persico. E sebbene non sia facile ottenere il visto d’uscita, l’esodo ha assunto tali proporzioni da rischiare di svilupparsi come quello dei vietnamiti. Vi concorrono troppi elementi: l’inflazione che galoppa al cinquanta per cento, la mancanza di un potere giuridico e di un tessuto amministrativo cioè di un apparato statale che la repentinità della vittoria ha disfatto; la polizia è inesistente, l’esercito è disperso, la scuola non funziona, ciascuno fa cosa vuole e nessuno obbedisce al governo che implora tornate-al-lavoro. Dei quindici giorni che ho trascorso a Teheran almeno dieci sono stati paralizzati dalle cerimonie commemorative, dai comizi, dai cortei, dai funerali dell’ayatollah Talegani morto di fatica e di crepacuore. Locali pubblici chiusi, telefoni muti, fabbriche a spasso. L’Italia, al paragone, diventa un paese stakanovista.
Eppure è troppo presto per dire che si tratta di una rivoluzione fallita, esplosa per sostituire un despota con un altro despota. Ed è addirittura azzardato concludere che non si tratta di una rivoluzione bensì di una involuzione, quindi tante creature son crepate per nulla, al-tempo-dello-Scià-era-meglio. I grandi capovolgimenti conducono sempre ad eccessi, estremismi fanatici, interregni caotici: la Francia non ci dette forse il Terrore? E una rivoluzione è avvenuta: religiosa, non libertaria. Per questo non la riconosciamo, e ce ne inorridiamo. Per questo ne siamo delusi. Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo; si poteva ballare e nuotare in costume da bagno e lavarsi i capelli dal parrucchiere, però dagli elicotteri si gettavano i prigionieri politici nel lago Salato; non si fucilavano gli omosessuali, le prostitute, le adultere, però si massacrava la gente nelle piazze e si viveva solo per vendere il petrolio agli europei. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle nostre per correggere quelle realtà. «Voi occidentali non ve ne rendete conto perché siete obnubilati dagli schemi ideologici e morali delle vostre scelte, dal culto del raziocinio, della libertà individuale, del laicismo», mi dice l’amico persiano che mi accompagnerà da Khomeini.
Il settanta per cento della popolazione iraniana è analfabeta. Vegeta nella miseria materiale e culturale in cui l’ha mantenuta un monarca avido e pazzo che si riteneva l’erede di Serse e sprecava miliardi per incoronarsi a Persepoli. E crede in Dio, nel Corano, nel chador. Non ha mai avuto rispetto per gli intellettuali e i politici che hanno sposato le nostre idee, non ne ha mai seguito gli insegnamenti, forse non ha mai nemmeno saputo che lottavano per un mondo migliore e venivano trucidati dalla Savak. I suoi rapporti sono sempre stati coi mullah e con gli ayatollah, cioè coi gerarchi di un clero uso a sfruttar l’ignoranza e a manipolarla nelle moschee: «Allah è grande e Maometto è il suo profeta. Se Maometto ti chiede di coprire il collo e i capelli, li devi coprire. E chi lo nega è un cane infedele». Insomma, ad avviare e condurre la rivolta al regime imperiale non sono stati uomini moderni, proiettati verso il futuro: sono stati i mullah e gli ayatollah che predicano l’Islam come il paradiso in terra. E, a dirigerla, il gran personaggio il cui nome è sulla bocca di tutti e il cui ritratto ora sostituisce il ritratto dello Scià. Ostinatamente, irriducibilmente, per sedici lunghissimi anni, dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Francia, l’esilio con cui aveva evitato la pena capitale. Un po’ ingenuo sperare che dopo le cose cambiassero, che la religione cedesse il passo alla ragione. Infatti il novantotto per cento dei deputati eletti sono mullah e ayatollah, la sola rappresentante del sesso femminile è una bacchettona talmente intabarrata dentro il chador che alcuni sospettano sia un prete coi baffi. E pei laici, pei progressisti, non c’è il minimo spazio. Così pei nostri concetti di bene e di male, di bello e di brutto, di giusto e di ingiusto, di democrazia pluralista che protegge le minoranze. E di gratitudine per coloro che sono morti senza che il clero glielo chiedesse.
«Scusi, Imam, voglio esser certa d’aver capito bene. Lei afferma che la sinistra non ha avuto niente a che fare con la cacciata dello Scià. Neanche la sinistra che ha dato tanti arrestati, tanti torturati, tanti assassinati. Né i vivi né i morti a sinistra contano nulla.» E lui:«Non hanno contribuito a nulla. Non hanno servito in nessun senso la Rivoluzione. Alcuni hanno lottato, sì, ma per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla vittoria. Non vi hanno portato niente. Non hanno avuto nessun rapporto col nostro movimento, non hanno esercitato nessuna influenza su di esso. No, le sinistre non hanno mai collaborato con noi: ci hanno messo i bastoni tra le ruote e basta. Durante il regime dello Scià erano contro di noi quanto e come lo sono ora, e a tal punto che la loro ostilità nei nostri confronti superava quella dello Scià: era molto più profonda. Il nostro è sempre stato un movimento islamico, e le sinistre sono sempre state contro di esso: non a caso l’attuale complotto ci viene da loro. E il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una sinistra vera, ma di una sinistra artificiale, voluta dagli americani». «Una sinistra made in USA, Imam?» E lui: «Sì, partorita e sostenuta dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e sabotarci e distruggerci». «Dunque quando lei parla del popolo, Imam, si riferisce a un popolo legato esclusivamente al movimento islamico. Ma secondo lei questa gente che si è fatta ammazzare a decine di migliaia è morta per la libertà o per l’Islam?» E lui: «Per l’Islam. Il popolo si è battuto per l’Islam. E Islam significa tutto. L’Islam ingloba tutto. L’Islam è tutto».
È un pomeriggio assolato a Qom, la città santa dove Khomeini ha scelto di abitare, e le strade scoppiano di pellegrini giunti da ogni parte del paese per vederlo un attimo da lontano, esserne benedetti. Hanno viaggiato giorni e giorni con quella speranza, a piedi oppure in carovane di automobili, autobus. Stanotte non troveranno un letto, una branda su cui riposarsi: gli alberghi son colmi. E le locande, le bettole che affittano i materassi. Ma non se ne curano. Insensibili alla stanchezza, alla fame, alla sete, allo spettacolo di chi sviene, vanno a ingrossare la folla che circonda il quartiere dov’è la sua casa e un boato scuote l’aria: «Zendeh bad, Imam! Payandeh bad! Che tu viva, Imam, che tu sia eterno!». Imam significa santo, guida, duce. Si può solcare quel magma di corpi solo con l’aiuto dei militari che controllano il vicolo per cui si accede alla casa, e prima di arrivare alla casa ci sono tre posti di blocco, dopo l’ultimo posto di blocco le guardie stanno anche sui tetti: pupille inquiete, mitra pronto a sparare.
È dunque tanto il timore che egli venga ucciso? La porta è sbarrata da un catenaccio. Si schiude con sospetto, lentissimamente, e l’attesa si svolge in un’anticamera gonfia di silenzioso imbarazzo, tra uomini che bevono il tè. Mi hanno riconosciuto. Sono la straniera che nel 1973 intervistò lo Scià e senza timidezze gli chiese conto dei suoi misfatti: a tal punto che egli replicò: «Lei non sarà mica sulla lista nera? ». Durante la Rivoluzione ciò che avevo scritto contro di lui divenne un libretto clandestino da agitare come un manifesto, per questo Khomeini ora mi riceve. Gli uomini imbarazzati lo sanno ma questa donna seduta per terra coi maschi gli sembra ugualmente una presenza sacrilega. Mi esaminano: eppure il mio abbigliamento è in regola: più che a un essere umano assomiglio a un fagotto. Sui pantaloni neri e la camicetta nera indosso un mantello nero, il collo e i capelli sono ben nascosti da un foulard nero annodato al mento, e sopra tutto questo ho il chador. Nero, s’intende. Bagher Nassir Salamì, l’amico persiano che mi accompagna insieme al fotografo e che mi farà da interprete con Abolhassan Bani Sadr del Comitato Rivoluzionario, me l’ha aggiunto per sicurezza: il mantello rivelava un po’ di forme e il foulard scopriva un po’ la fronte. Mi ha fatto anche togliere lo smalto dalle unghie delle mani e dei piedi, e il rossetto dalle labbra, mi ha consentito soltanto un lieve colpo di matita marrone alle palpebre. Ma ora si sente morso dal dubbio: non sarò troppo audace, non mi giudicherà troppo truccata, l’Imam? Bagher è molto emozionato. Suda. Anche Bani Sadr, incredibile a dirsi, è molto emozionato. Suda. Hanno entrambi vissuto e studiato per anni in Europa, il primo a Firenze, il secondo a Parigi, non sono due uomini qualsiasi, conoscono bene l’Imam, e tuttavia sono emozionati. Quando ci introducono scalzi nella stanza dove avverrà l’intervista (quattro pareti, una moquette per accovacciarsi e nient’altro) li vedo accartocciarsi come sacerdoti dinanzi al Santissimo. E quando lui entra, col suo turbante e il suo camicione, si chinano a baciargli la mano.
È un vecchio molto vecchio. Da vicino non incute affatto la paura che distribuisce dalle fotografie. Forse perché appare così stanco e una misteriosa tristezza gli torce i lineamenti. O un misterioso scontento? Quasi con simpatia puoi indugiare a osservargli la candida barba lanosa, le labbra umide e sensuali, da uomo che soffre a reprimere le tentazioni della carne, e il gran naso imperioso, i terribili occhi nei quali condensa la sua fede priva di dubbi, la forza spietata di chi manda la gente a morire senza piangerci su. Occhi che non si degnano mai di posarsi su di me. Li terrà sempre abbassati a fissarsi le bellissime dita e non li alzerà che una volta: quando gli rinfaccerò che non si può nuotare con il chador e mi darà una risposta inaspettatamente cattiva. Lui che ha tollerato senza battere ciglio le mie accuse di dittatura, despotismo, fascismo. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.» (Allora, indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo indagatore da cui mi sentirò spogliata.) Lo ringrazio d’avermi ricevuto. Lo avverto che le mie domande non gli piaceranno e dovrà rispondermi con molta pazienza: sono qui per capire. Mi risponde distaccato e benevolo, centellinando una voce così bassa da suonare un sussurro. E ciò dura per quasi due ore, cioè finché scoppia l’incidente che ho detto. L’indomani, tenendo un discorso sulle calunnie dell’Occidente, parlerà del nostro incontro e mi definirà «quella donna».