Era fatta così: bella, affascinante, coi quei suoi occhi scuri da cercatrice di mondi perduti. E donna assolutamente libera.

Come la chiamavano? La Viaggiatrice di Bisanzio perché aveva visto posti sconosciuti ai più, parlato con persone mai presentate prima e mangiato cibo dai sapori esotici. Si era allungata fino al mare; andando oltre; l’oceano, gli abissi, fino a salire le vette inesplorate di catene montuose. E si era calata giù, in buche nella roccia profonde e buie. E quando venne a trovarla Signora Tristezza fu difficile aprirle la porta.

Una volta la Viaggiatrice di Bisanzio ci avrebbe riso sopra.

“Signora prego, si accomodi pure. Non mi dica niente, ma oggi ho un forte attacco di ridarella… ah, ah, ah… mi scusi… ha detto che si chiama Tristozza… ops! Tristella? Ma che dico, lei si chiama Trispulla. Insomma, signora Tristilla ha un nome troppo brutto, ha mai pensato di cambiarlo? Guardi che conosco uno che conosce un altro che conosce il figlio del proprietario del negozio CambiaNomePerchéQuelloCheHaiFaSchifo, qui all’angolo, che mi farebbe un prezzo di favore.”

Signora Tristezza se ne sarebbe andata con la coda tra le gambe, il paniere senza pane e l’indecisione se cambiare nome o meno.

Però, quel giorno, la porta della Viaggiatrice di Bisanzio era già aperta, e la tristezza entrò indisturbata. Le rubò prima il desiderio, poi la volontà e infine l’amore. Passarono gli anni, le montagne divennero tenue penombre all’orizzonte; i viaggi si diradarono; e la Viaggiatrice di Bisanzio si trasformò in una donna timida e impaurita.

C’era un unico modo per farla guarire. Ritrovare i gioielli rubati da Tristezza.

Le sue amiche ne erano convinte e per aiutarla decisero di mettersi in cammino.

“Sulla strada troveremo il sentiero giusto” disse Rossana.
“Si!” rispose decisa Giallina.
“Certo” acconsentì l’ultima delle amiche, Aranciona.

Sfidando il vento e la tempesta le dolci fanciulle arrivarono ad un casolare deserto. Erano sicure che fosse la casa di Tristezza. Lo avevano capito dallo sguardo perso nel vuoto dei suoi vicini. E poi nessun fiore era colorato da quelle parti, mentre gli alberi perdevano le foglie appena queste facevano capolino sui rami.

Tra tonalità di grigio e grigiastro Rossana, Giallina e Aranciona bussarono alla porta.

“Ma chi è che osa venire senza invito!” urlò una voce rauca e nasale.
“Ci scusi, abbiamo perso la strada per tornare a casa. Mica potrebbe darci ospitalità per questa notte?”, disse Rossana.
“Si, la prego” le fecero eco Giallina e Aranciona.

Ci fu un attimo di silenzio rotto soltanto dal meccanismo arrugginito della serratura.
Dalla porta fece capolino una signora cieca e vecchia. Vestita di cenci rotti e pantofole bucate. Fu cordiale. Quel tono risoluto di poco prima era cambiato. Sembrava contenta di averle lì.

“Chissà cosa starà escogitando?” pensarono le tre amiche.
La casa era piena di polvere. Chiaramente, Signora Tristezza non amava la vita da massaia. I piatti accatastati nel tinello e quell’odore di muffa alle pareti erano un chiaro segno di trascuratezza.

L’anziana donna le annusò.

“Ho capito chi siete. Siete le amiche di quella lì. Quella viaggiatrice. Quella a cui ho rubato le cose a cui più teneva. Ormai ciò che cercate non posso più restituirlo.”
“Cosa significa che non può più restituirlo?” domandò la coraggiosa Giallina.
“Semplice cara… che non ce l’ho più.”
“E ora?”
“E ora, vorrà dire che mi darete anche i vostri, di doni più preziosi!”

Un vento si alzò nella stanza. Le tre amiche furono travolte da un vortice che le raggelò l’anima. E ammutolite divennero statue.

Quel giorno la Viaggiatrice di Bisanzio fece un sogno. Vide la casa di Signora Tristezza e le amiche trasformate in statue. Alcune lacrime rigavano il viso di Aranciona.

“Ma perché hanno fatto tutto questo?” si chiese sconfortata.
“Potevano almeno chiedermi il permesso. Ovvio, gliel’avrei negato.”

Dalla finestra della casa rifugio la Viaggiatrice di Bisanzio percorse con gli occhi il sentiero che da casa sua portava a casa di Tristezza. Soltanto pochi giorni di cammino e avrebbe raggiunto le sue amiche. Ma non aveva lei rinunciato alla vita. A esplorare mondi e mari lontani? Non aveva forse rinunciato a essere la Viaggiatrice di Bisanzio qual era?

No, che non l’aveva fatto.
L’acqua non spegne un cuore che arde ancora di passione.

La Viaggiatrice di Bisanzio ritrovò i suoi vecchi pantaloni, la blusa verde e il cappello di canapa. E iniziò a camminare.

Attraversò vallate e boschi. Incontrò amici e trappole. E quando bussò a quella porta rimase stupita per non essersi mai guardata indietro.

“Chi è?” domandò la voce conosciuta.
“Sono Io. Apri!”
“Tu? Ma com’è possibile!”
“Apri!”

La porta si apri. E come quel giorno che la vide in casa sua Signora Tristezza apparve con tutto il grigio che un’anima insoddisfatta più avere.

Si allontanò alla vista. Aveva paura.

“Non ti permetterò di uccidere le mie amiche. E ora guardami!” urlò la Viaggiatrice di Bisanzio.

Signora Tristezza voleva scappare, ma non poteva. Le erano sempre mancate le forze.

“Guardami!”

La Viaggiatrice di Bisanzio le prese con violenza il viso e la fissò negli occhi. Due cerchi spenti senza colore né iride. Un mondo cupo, senza speranza: questo fu quello che vide negli occhi di Signora Tristezza.

“Guardami! Non smettere di guardarmi.”

E ancora cieli sconfinati. Pozzi pieni d’acqua e prati dai mille colori. Negli occhi di Signora Tristezza c’erano i gioielli rubati alla Viaggiatrice di Bisanzio: Desiderio, Volontà e Amore. Lì di nuovo a guardarla. A starle vicino. Eccoli ritornati alla legittima padrona.

“Ora lasciami in pace. Hai avuto quello che cercavi. Vattene. Tu, e le tue amiche, andatevene via!”

Stremata Signora Tristezza si accasciò ai piedi di una sedia rotta. Piangeva. E questo turbò tanto la Viaggiatrice di Bisanzio che provò per quella vecchia signora tanta pena.

Riabbracciò le sue amiche e lasciò quella casa.

La Viaggiatrice di Bisanzio non dimenticò mai quel lungo periodo grigio che tanto bene le aveva fatto, donando alla sua vista i colori della felicità.

 

A Pina, mia preziosa amica di scrittura creativa.
Racconto liberamente ispirato all’omonima canzone di Patty Pravo