Mi sono commossa nel guardare il film The Help, e ancor di più a leggere il libro. Pensavo che quelle scene fossero un po’ romanzate e che in realtà tanta meschinità non esistesse. Ebbene, mi sbagliavo. Il libro racconta con semplicità sconcertante il mondo razziale nell’America degli anni di Martin Luther King e John F. Kennedy.
Sono le donne ad uscire sconfitte. Il ritratto di un mondo femminile in continua competizione che nasconde la cattiveria, la malignità e l’assoluta mancanza di autostima dietro un rossetto rosso corallo e ai propri bambini, è vero ora come allora. Ma con qualche differenza, è meno palpabile.
Il libro racconta cosa vuol dire lavorare come cameriera nera alle dipendenze di una famiglia bianca americana. E cosa significhi scrivere con la paura di essere arrestati per aver messo la verità nero su bianco. È sempre stato uno strano paese l’America. Da un lato professa di combattere per difendere i diritti dell’uomo, dall’altro lato appoggia leggi e comportamenti in continua violazione di questi diritti.
Le leggi razziali erano terrificanti:
– posti a sedere per bianchi e posti a sedere per neri
– fontane per bianchi e fontane per neri
– biblioteche per bianchi e biblioteche per neri
– supermercati per bianchi e supermercati per neri
– ospedali e medici che curano solo bianchi e ospedali e medici che curano solo neri
– bagni per neri e bagni per bianchi
– …
La lista è lunghissima e non finisce qui. Ci sono voluti morti, maltrattamenti e violenze per far cessare questi soprusi. Ma saranno veramente finiti? Non credo, c’è sempre una vena razzista nell’essere umano. È il nuovo che fa paura. E chi dovrebbe educare (famiglia, stato e scuola) ha più paura di noi. E giù con botte e violenze.
Come può la scrittura dare un suo sano contributo? Semplicemente scrivendo e condannando tutti i casi di violenza. Perché non c’è ragione che tenga nel far del male a qualcuno. Nessuna ragione.
Esercizio di scrittura creativa
L’esercizio di oggi è scoprire la diversità che ci spaventa. E quella che ci attrae. Provate, magari, a ricordare un episodio della vostra vita dove avete assistito a una scena razzista. Come vi siete sentiti? E se siete stati voi stessi vittime del razzismo o di altra discriminazione? Scrivete, raccontate e diffondete. Il razzismo si combatte con la parola.
Buona scrittura a tutti.
Lungo il sentiero ho trovato cocci di vite passate: uno specchio a ricordarmi che il mio bel viso è sempre meno bello di un altro. Un portafoglio vuoto, e solidale con la miseria. E il banco dei bravi. Si, di quei primi della classe. I più carini. I più amati. Quelli che non sbagliano, perché nati con le risposte. Lungo il mio sentiero ho trovato un foglio con una domanda. Perché dovrei rispondere. Perché proprio io? La più bistrattata, la figlia della luna. Quella che vive all’ombra di rime e capoversi. Lungo il sentiero ho trovato una risposta: Amati, così come sei.
Ero sul bus. Immersa nel silenzio del viaggio e del viaggio dei
miei pensieri. E’ come frequentare lo stesso bar del tuo quartiere, il bus delle 8,20. Gli stessi volti, gli anziani che occupano lo stesso posto e quasi le stesse conversazioni.
Le stesse fermate, le stesse lamentele.
Lo stesso timore di urtare l’altro o di dire qualcosa ad alta voce.
Poi accadde. Una voce femminile, stridente, sofferente scosse
quel silenzio sommesso ed i miei pensieri.
Raccontava delle donne straniere, di furti, peccati e ritorni.
Ma cosa? Non volevo (dannata timidezza, o paura?), ma mi
voltai. Prima verso la fonte da cui proveniva tutto quel rancore
urlato, graffiante. E non era la solita pensionata che sbuffava
contro la maleducazione di un giovanotto pigro nel cederle il
posto o di una signora stanca dei ritardi dei mezzi di trasporto.
Era una donna sulla quarantina, il jeans e una felpa. Le rughe sul
volto e i capelli legati senza cura.
La bocca piccola, piccole le mani che faceva gesticolare nervosamente. E la mani si muovevano “contro” una direzione. Il
bersaglio era un’altra donna. La pelle candida, il volto giovanile
su un corpo “pieno”, maturo e giovanile. Belle le mani e i capelli
raccolti, ordinati. Si trattava di una signora polacca o ucraina.
Non so. Non parlava. Le spalle strette ad incassare parole
gratuite ma lo sguardo mai basso. Cercava tra la folla, altre voci,
altre parole. Ma nessun rumore. Tacqui anche io.
E piansi dentro. Non solo per Lei. Ma per la mia viltà ancora
più graffiante di quelle offese.
La bambina ha le guance piene e rosa su un volto ovale. Gli occhi grandi e sempre bassi. Ha paura di quei capelli corti. La rendono nuda dinanzi agli altri . Non può nascondersi. Allora abbassa gli occhi. Le altre bambine hanno quei capelli lunghi, vaporosi, con fiorellini e piccole trecce. Ciocche a incorniciare visi piccoli, riccioli che scivolano morbidi su metà volto. Sono vanitose e sanno cosa vogliono. Si vede dai capelli. E lei lo ha imparato. Ma non ha imparato a nascondersi e a difendersi.
Anche se è seduta all’ultimo banco che non ha scelto. Anche se
ha scelto il silenzio. Sa che quei capelli lunghi, i visi sottili, la
bellezza di quei fiorellini per dire “guardami” possono ferire.
La bellezza fa male. E non tollera.
Ha imparato ad accettare. Ma non ad accettarsi. Non ha scelta.
Non ha scelto lei quelle guance paffute. E pensa ai baci e ai
pizzicotti del nonno, alla nonna che le chiede sempre “Ma hai
mangiato? Vedi nonna che ti ha preparato!”.
Pensa a suo padre che le passa le mani tra i capelli e le sorride.
Desiderava tanto che si tagliasse i capelli.
Pensa a sua madre, quando rincasa tardi dal lavoro, l’abbraccia
e poi scuote la testa. E chiede “Hai parlato con qualcuna delle
tue compagne? Dovresti aprirti di più…”.
A questo pensa quando i compagni la prendono in giro perchè è
grassa, perchè ha quelle scarpe consumate e perchè i suoi
genitori non hanno la casa la mare.
– Papà perchè ho queste scarpe? Perchè non abbiamo la casa al
mare… Perchè hai le mani consumate dal freddo e dai calli?
Le mani del papà di Claudia non sono così.
I papà si distinguono dalle mani. Lo ha imparato a scuola.
Il papà le passa le mani sui capelli e sul viso. Il ruvido dei palmi
solletica la sua pelle e lei sorride. Sono calde, le mani del suo
papà e sanno far sorridere.
– Alcune cose non puoi sceglierle. Ma io ho scelto che tu stessi
bene. E che in futuro potessi scegliere Tu.
Oggi vorrei dirlo a Claudia.
Quella bambina ero, sono Io.
Ero sul bus. Immersa nel silenzio del viaggio e del viaggio dei miei pensieri.
E’ come frequentare lo stesso bar del tuo quartiere, il bus delle 8,20. Gli stessi volti, gli anziani che occupano lo stesso posto e quasi le stesse conversazioni.
Le stesse fermate, le stesse lamentele.
Lo stesso timore di urtare l’altro o di dire qualcosa ad alta voce.
Poi accadde.
Una voce femminile, stridente, sofferente scosse quel silenzio sommesso ed i miei pensieri.
Raccontava delle donne straniere, di furti, peccati e ritorni.
Ma cosa? Non volevo (dannata timidezza, o paura?), ma mi voltai. Prima verso la fonte da cui proveniva tutto quel rancore urlato, graffiante. E non era la solita pensionata che sbuffava contro la maleducazione di un giovanotto pigro nel cederle il posto o di una signora stanca dei ritardi dei mezzi di trasporto.
Era una donna sulla quarantina, il jeans e una felpa. Le rughe sul volto e i capelli legati senza cura. La bocca piccola, piccole le mani che faceva gesticolare nervosamente. E la mani si muovevano “contro” una direzione.
Il bersaglio era un’altra donna. La pelle candida, il volto giovanile su un corpo “pieno”, maturo e giovanile. Belle le mani e i capelli raccolti, ordinati. Si trattava di una signora polacca o ucraina. Non so. Non parlava. Le spalle strette ad incassare parole gratuite ma lo sguardo mai basso. Cercava tra la folla, altre voci, altre parole. Ma nessun rumore. Tacqui anche io.
E piansi dentro. Non solo per Lei. Ma per la mia viltà ancora più graffiante di quelle offese.
La bambina ha le guance piene e rosa su un volto ovale. Gli occhi grandi e sempre bassi. Ha paura di quei capelli corti. La rendono nuda dinanzi agli altri . Non può nascondersi. Allora
abbassa gli occhi. Le altre bambine hanno quei capelli lunghi, vaporosi, con fiorellini e piccole trecce. Ciocche a incorniciare visi piccoli, riccioli che scivolano morbidi su metà volto. Sono vanitose e sanno cosa vogliono. Si vede dai capelli. E lei lo ha imparato.
Ma non ha imparato a nascondersi e a difendersi.
Anche se è seduta all’ultimo banco che non ha scelto. Anche se ha scelto il silenzio. Sa che quei capelli lunghi, i visi sottili, la bellezza di quei fiorellini per dire “guardami” possono ferire.
La bellezza fa male. E non tollera.
Ha imparato ad accettare. Ma non ad accettarsi. Non ha scelta.
Non ha scelto lei quelle guance paffute. E pensa ai baci e ai pizzicotti del nonno, alla nonna che le chiede sempre “Ma hai mangiato? Vedi nonna che ti ha preparato!”.
Pensa a suo padre che le passa le mani tra i capelli e le sorride.
Desiderava tanto che si tagliasse i capelli.
Pensa a sua madre, quando rincasa tardi dal lavoro, l’abbraccia e poi scuote la testa. E chiede “Hai parlato con qualcuna delle tue compagne? Dovresti aprirti di più…”.
A questo pensa quando i compagni la prendono in giro perchè è grassa, perchè ha quelle scarpe consumate e perchè i suoi genitori non hanno la casa la mare.
– Papà perchè ho queste scarpe? Perchè non abbiamo la casa al mare… Perchè hai le mani consumate dal freddo e dai calli?
Le mani del papà di Claudia non sono così.
I papà si distinguono dalle mani. Lo ha imparato a scuola.
Il papà le passa le mani sui capelli e sul viso. Il ruvido dei palmi solletica la sua pelle e lei sorride. Sono calde, le mani del suo papà e sanno far sorridere.
– Alcune cose non puoi sceglierle. Ma io ho scelto che tu stessi bene. E che in futuro potessi scegliere Tu.
Oggi vorrei dirlo a Claudia.
Quella bambina ero, sono Io.